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Superata via Gianturco, la prossima fermata della nostra cara vecchia Vesuviana è San Giovanni a Teduccio.
Sarà una fermata un po’ sui generis con alcune digressioni storiche, dal momento che la sua evoluzione è stata fortemente influenzata dai processi di industrializzazione ed urbanizzazione, innescati delle scelte economico-urbanistiche della città di Napoli.

San Giovanni a Teduccio, infatti, al pari di tante periferie, o meglio archeologie, industriali, è tuttora afflitto da gravi problemi di degrado, ma non a causa di una presunta “criminalità innata” dei suoi abitanti quanto, piuttosto, per essere stata vittima del abbraccio mortale di politiche urbanistiche speculative ed il parallelo declino della cintura industriale napoletana.
Infatti, da terreno paludoso ad est di Napoli a raggruppamento di chiese e casali, con la legge dell’8 luglio 1904, detta il Risorgimento economico di Napoli, e soprattutto con il successivo Piano Regolatore Generale del 1914 ad opera dell’ing. F. De Simone, San Giovanni a Teduccio cambia radicalmente volto: nell’ambito della nuova compartimentazione della città, i terreni orientali furono dapprima destinati genericamente all’edificazione di caseggiati industriali a regime di deposito franco, per poi essere espressamente assegnati ad ospitare le future industrie locali.

Questa svolta, del resto, fu favorita anche dall’imminente inglobamento di San Giovanni a Teduccio nella città di Napoli: fino al 1925, infatti, il futuro quartiere era ancora un comune autonomo, almeno fin quando il sogno mussoliniano di creare grandi metropoli italiane, e quindi una Grande Napoli, non portò all’incorporazione di molte entità limitrofe come Chiaiano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Soccavo, Pianura, Barra, Ponticelli e, ovviamente, San Giovanni a Teduccio.
I piani regolatori si susseguono ma la funzione principale di San Giovanni a Teduccio, come della periferia settentrionale, rimane sempre quella di bacino industriale napoletano, ferrovia inclusa.

La guerra lascia una città distrutta dai bombardamenti, causando un numero enorme di sfollati, di abitazioni distrutte e relativo sovraffollamento delle poche strutture rimaste in piedi.
Purtroppo, nessun intervento pubblico riesce a razionalizzare il processo di ricostruzione: anzi, il piano regolatore generale del 1958 darà luogo ad un selvaggio e caotico processo di speculazioni edilizie, caratterizzate da pesanti collusioni edilizio-politiche e dal crollo della qualità dei modelli insediativi residenziali.

È l’epoca del Sacco di Napoli , della “reggenza”del Commissario Correra e della longa manus di Mario Ottieri, la cui spregiudicatezza ben si sposava con il desiderio della popolazione di nuove abitazioni dopo le distruzioni della seconda guerra mondiale.
Il risultato finale è sconvolgente e dagli effetti ancora attuale: un’espansione edilizia selvaggia e senza controllo non solo oltre i limiti orografici dei terreni, ma che ha favorito la creazione di veri e propri ghetti, ossiai rioni pubblici, veri e propri feudi isolati e autonomi ben presto diventati culle di illegalità e micro e macro-criminalità.

Ma all’orizzonte c’è un altro spartiacque: l’Irpinia e la Basilicata sembrano lontane, tuttavia il devastante terremoto del 1980 farà sentire comunque i suoi effetti perversi.
Anche San Giovanni a Teduccio, infatti, verrà interessato dal cosiddetto Piano delle Periferie, un programma di edilizia pubblica, varato al fine di fronteggiare l’emergenza sfollati, che porterà alla creazione di un nuovo “macro-quartiere” autonomo e autosufficiente: in poche parole, il progetto Taverna del Ferro, meglio conosciuto come il Bronx.
Umberto Eco, tramite uno dei suoi personaggi più riusciti, scriveva che l’odore dell’incenso spesso si confonde con quello dello zolfo.
In effetti, il progetto Taverna del Ferro era animato da buone intenzioni, ossia dare agli sfollati case nuove e dignitose, rafforzando al tempo stesso i legami comunitari.
Il suo successo avrebbe potuto e dovuto contare su tre fattori: l’autosufficienza, grazieai tanti servizi teoricamente presenti; la facilità di accesso ed uscita dal complesso, attraverso un numero sufficiente di varchi, a vari livelli; la capacità aggregativa risultante dalla compattezza degli spazi.

In realtà, i locali destinati a pizzerie, negozi, centri per anziani sono stati adibiti a covi di banditi, garage per auto rubate, angoli di spaccio: la densità abitativa, la qualità degli assegnatari e la qualità dei prefabbricati, alla fine, si sono rivelati elementi in grado di innescare un circolo vizioso di degrado e criminalità, analogamentealle Vele di Scampia a Secondigliano.
In breve, da possibile centro aggregante, Taverna del Ferro è diventato uno degli emblemi del processo di appropriazione degli spazi pubblici da parte della criminalità locale.

Anche oggi, purtroppo, San Giovanni a Teduccio appare un grande cimitero industriale, tra capannoni dismessi, torri e ciminiere, simboli di lavoro, sacrifici e al tempo stesso di sfruttamento del territorio.
Territorio che per molto, troppo sembra essere stato dimenticato e marchiato, quasi come a voler rinnegare un passato di errori ed orrori.
Territorio che rimaneva legato a Napoli da un filo sottile ma robusto, la Circumvesuviana, che nonostante tutto ha sempre continuato a tenere insieme il centro ad una delle sue periferie più critiche.
Tuttavia, come per via Gianturco, anche qui ci sono dei segnali di ripresa, grazie ad investimenti pubblici mirati ad una piena riconversione dell’area all’insegna della cultura, dell’istruzione e dell’arte.

Il vecchio stabilmento Cirio, infatti, è stato totalmente riqualificato per ospitare il nuovo Polo scientifico-universitario di Napoli Est sotto l’egida dell’Università di Napoli Federico II e del CNR, cui ha fatto seguito anche il prolungamento della linea 2 della Metropolitana di Napoli al fine di agevolarne l’afflusso di studenti e ricercatori.
Un vero e proprio circolo virtuoso che non tarderà a manifestare i suoi effetti positivi sul quartiere, stimolando una maggiore presenza di servizi, di iniziative locali, di cura del territorio. Tutte potenzialità sulle quali ha deciso di scommettere anche la Apple, realizzandovi addirittura la prima Developer Academyin Europa.
Ma nessun intervento dall’alto può portare ad un vero cambiamento se non è sentito tale anche dal basso.
E in quartiere così martoriato dalla bruttezza industriale, questo cambiamento non prescindere dalla vittoria dell’arte sul ferro, dei colori sul grigio, della sensibilità artistica sull’indifferenza della rassegnazione.

E anche a San Giovanni a Teduccio, come a Ponticelli, Jorit Agoch con i suoi graffiti sta cercando di trasformare queste cattedrali di ferro e ruggine in tele dove dipingere il nostro bisogno di esprimerci, di affermare che esistiamo.
Graffiti per annullare le compartimentazioni tradizionali della società, per evitare il confino della bellezza in spazi prestabiliti, per fare della città un museo a cielo aperto.
Volti per annullare l’odio, per riflettere noi stessi, per capire che le differenze che ci contraddistinguono e ci separano sono poca cosa rispetto alla bellezza della persona umana nella sua essenza.
C’è un cambiamento in atto, e vale la pena di scendere a San Giovanni a Teduccio per ammirarlo.


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